“Massonofobo illiberale” sono stato definito poco dopo aver proposto, durante una conferenza stampa a Montecitorio, che i dipendenti pubblici avessero l’obbligo di rivelare la loro appartenenza alla libera muratoria, specificando rango e loggia. Malgrado la svolta verso la trasparenza degli ultimi anni, che vorrebbe le consorterie italiane ansiose di far conoscere a chicchessia l’elenco dei propri iscritti, di fatto un alone di mistero le circonda tuttora, con particolare riguardo a quegli iscritti la cui identità è all’orecchio del solo Grande 33. Leggendo i quotidiani di oggi emerge che dietro lo sgambetto moscovita subito da Salvini c’è lo zampino della massoneria francese, mentre una loggia italiana si affretta a farci sapere che il principale sospettato fu da essa espulso tempo fa’. Excusatio non petita accusatio manifesta dicevano i romani ed io oramai mi sono convinto che Salvini ha commesso la stessa leggerezza dell’uomo cui più sembrano ispirarsi le sue mosse, Benito Mussolini. Quale? Non essersi mai iscritto ad una loggia massonica. Ma lo vieta lo statuto della Lega, direte voi. Se è per questo, vi rispondo io, la Chiesa Cattolica commina l’automatica scomunica per tutti i massoni, eppure grandi cardinali lo furono e lo sono tutt’ora. Anni orsono ricordo la liaison fra il cardinal Ravasi, allora convinto di diventare Papa, e Stefano Bisi, all’epoca gran maestro del Grande Oriente d’Italia, tutto incentrata sui comuni nobili ideali .
Mino Pecorelli il 12 settembre 1978 pubblicò, vuolsi indotto dal suo amico Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’elenco dei prelati cattolici iscritti alla massoneria. Fra le ipotesi che si fanno del vero movente che vide Cosa Nostra solo esecutrice di un omicidio deciso altrove, quella che prediligo io è proprio che Chiesa Cattolica e Massoneria abbiano voluto sbarazzarsi del generale che consideravano acerrimo ed irriducibile nemico. L’articolo di Pecorelli si intitolava “La gran loggia vaticana”, e ne indicava i massimi esponenti nei cardinali Sebastiano Baggio, Salvatore Pappalardo, Ugo Poletti e Jean Villot. Vi trascrivo qui il giuramento di ogni massone italiano, introdotto nel 1976 dal Gran Maestro Livio Salvini (parente? non credo):

“Al fine di impedire che le nostre arti segrete e i nostri misteri nascosti possano essere impropriamente conosciuti per colpa della mia imprudenza, io solennemente giuro di non palesare giammai i segreti della Libera Massoneria, pena, violando anche uno solo di essi, di avere la mia gola tagliata di tondo, la lingua strappata dalla sua radice, con seppellimento del mio corpo sotto la riva del mare, a livello della bassa marea, a distanza di una gomena dalla riva, dove il flusso ed il riflusso della marea arriva regolarmente due volte ogni 24 ore.”Esattamente ciò che accadde al banchiere cattolico piduista Roberto Calvi, strozzato per impiccagione (gola tagliata di tondo e lingua strappata dalla sua radice) e ritrovato a distanza di una gomena dalla riva del fiume, dove il deflusso del Tamigi si incrocia due volte al giorno con il flusso delle maree. E vengo alla domanda che pongo nel titolo dell’articolo.

Io ho prestato servizio a Treviso per molti anni, ed ho assistito alla nascita ed al progredire della carriera di Luca Zaia. Se Treviso fosse stata in Sicilia, quando ci arrivai per la prima volta, il 31 luglio 1994, e subito si presentò da me un appuntato in pensione ansioso di conoscere quali fossero i miei problemi pratici, avrei avuto la stessa diffidenza che di fatto egli mi ispirò, a partire dalle sue origini pugliesi.

Gli offrii comunque un caffè, lo ringraziai della visita, ed appena uscì dal mio ufficio presi informazioni su di lui. Mi fu spiegato che era un impiegato dei fratelli Venerandi, proprietari di tutte le discoteche della provincia. Aveva un solo compito a giustificare il suo stipendio: ogni mattina faceva una visita in Questura, e poi altre due, la prima al comando provinciale della Guardia di Finanza e la seconda da noi carabinieri. I funzionari di polizia, gli ufficiali della GdF e quelli dei carabinieri dovevano vederlo, prendere dimestichezza con lui e confidargli i loro problemi pratici, in modo che i fratelli Venerandi potessero risolverli. Io, per esempio, avevo un incarico, comandante del Reparto Operativo, per cui non era previsto l’alloggio di servizio, e quindi cercavo casa.

Dopo il primo mese all’albergo Le Beccherie, dove la mia Land Rover pick up corse il rischio di essere sfrattata dal parcheggio perché rozza ed inelegante com’era turbava il senso estetico del sostituto procuratore De Lorenzi, ospite dello stesso parcheggio, avendo un appartamento in locazione per una cifra irrisoria nella vicina Ca Dei Ricchi, affittai una mansarda arredata limitrofa alla caserma per un milione al mese il primo anno, ed un milione e 50 mila lire l’anno successivo, prezzo di mercato (e salato per allora).

Quando pochi mesi dopo arrivò il nuovo comandante della compagnia carabinieri, Michele Sarno, e dovette aspettare più di un anno prima che il suo predecessore gli liberasse l’alloggio, fu ospite per 18 mesi gratuitamente di una villetta messa a sua disposizione dai fratelli Venerandi.

Durante la stagione della caccia, poi, tutti i funzionari di polizia , gli ufficiali dei carabinieri e della finanza che sapevano imbracciare un fucile erano ogni domenica ospiti della riserva di caccia dei fratelli, dove facevano strage di selvaggina. Seguiva un pranzo conviviale presieduto dal più grande dei Venerandi, che aveva atteggiamenti degni di un patriarca (scrivo border line la querela, per cui altro sostantivo con la p avrei voluto usare). Io ci andai una sola volta, partecipando solo al pranzo e, simulando una idiosincrasia per la caccia, mi astenni sempre, nei cinque anni successivi.

Avevo allora un tenente, già maresciallo, grande ed onestissimo sbirro di origini siciliane, che mi comandava il nucleo investigativo. Il tenente Giordano aveva una teoria, e cioè che tutti i proventi delle discoteche, sto parlando di centinaia di milioni in contanti ogni mese, venissero custoditi nella camera blindata della più grande di esse, e che periodicamente, quando superavano il miliardo di lire, tutti quei soldi venissero movimentati verso banche compiacenti, non necessariamente ubicate in Italia.

Cercava un superiore gerarchico disponibile ad avallare sue perquisizioni senza mandato, e sperava di averlo trovato in me. Non fu così, e so che vi deludo confessandovelo. Ero reduce da tre anni di esilio comminatomi da Bettino Craxi per la Duomo Connection, avevo avviato Mani Pulite interessandomi per primo di Mario Chiesa, ed avevo visto il mio collega Roberto Zuliani trasferito a Lamezia Terme dopo che il Chiesa aveva osato addirittura arrestarlo.

Quanto propostomi da Giordano non mi sembrava un granché, rispetto allo sfregio che avrei dovuto infliggere al Procuratore Stitz che ammiravo incondizionatamente. Feci con lui timide avances, e capii che stimava il patriarca come un buon compagno di caccia della cui onesta’ non aveva mai dubitato. In quegli stessi anni i massoni italiani erano oggetto di indagini da parte di due magistrati molto rinomati, Mastelloni a Venezia, ed Agostino Cordova prima in Calabria e poi a Napoli.

A Treviso il massone più autorevole era il vecchio procuratore della repubblica Cesare Palminteri, ed il prefetto Torda, l’unico non laureato in tutta Italia, cenava ogni venerdì con lui e con gli altri maggiorenti della loggia locale.

Ebbi una parziale conferma che Giordano non aveva torto quando a Maserada il maresciallo Marini che comandava la stazione (oggi sindaco), si beccò un proiettile di Kalasnikov per sventare una rapina in banca, apparentemente priva di senso, visto che quell’agenzia di Cassamarca movimentava ufficialmente poche centinaia di migliaia di lire.

Quando Marini uscì dalla sala operatoria mi confidò che secondo lui il direttore aveva taciuto di un sacco contenente 80 milioni in contanti provento delle discoteche. Chi era stato fino a poco prima quello che teneva i conti dei fratelli Venerandi? Luca Zaia, che dopo il diploma dell’istituto tecnico (non dubito che oggi sia una laurea magistrale) era stato assunto da loro e con loro era rimasto fino al suo debutto in politica.

Quando due anni dopo diventai comandante provinciale ed ebbi con lui una dura polemica perché da presidente della provincia di Treviso non voleva vendere, se non a prezzo di mercato, l’immobile limitrofo alla caserma che ci avrebbe consentito di incrementare un organico asfittico perché non avevamo dove far dormire i carabinieri, chiamai il patriarca Venerandi e lo pregai di intercedere per noi.

Feci una sceneggiata a suo favore: chiesi in archivio il fascicolo più alto che avessimo e mi portarono quello di Adriano Udorovich, pregiudicato per una antica e sempre rinnovata quantità di reati. Io ci misi sopra una copertina nuova, sulla quale scrissi Luca Zaia, e dissi al padrino che se il Presidente non cambiava idea, avrei sfogliato il fascicolo pagina per pagina, imparandolo a memoria, alla ricerca di quei segreti che ogni uomo nasconde e che solo i carabinieri sono capaci di scoprire.

La mattina dopo mi telefonò la segretaria di Zaia, chiedendomi di fissare un appuntamento, ma io mi dissi tanto onorato che mi sarei precipitato subito ad ossequiarlo nel suo ufficio. Un quarto d’ora dopo, entrambi seduti sulle poltrone del suo salotto sorseggiando un caffè, mi propose di far realizzare direttamente alla provincia l’allargamento della caserma e, vedendomi entusiasta, mi disse che lui dava del tu al maggiore Forte (oggi mitico presidente del Forte Group), mio collega elicotterista, e che ambiva ad analogo privilegio per i nostri futuri rapporti.

Io gli risposi che l’onore era tutto mio, Da allora nel corso degli anni l’ho visto solo durante le feste in Prefettura, dove si studia di evitarmi con grande determinazione. Forse teme che gli dia del tu, ed in questo senso lo rassicuro che non sarà così: mi comporterò da suddito ossequiente per amore di mia moglie.

L’allargamento della caserma poi non c’è stato perché il mio ottuso successore eccepì che il progetto non era in linea con quello standard diffuso dall’Ufficio Infrastrutture del Comando Generale. Ma io allora, era il 1999, mi chiesi subito cosa Zaia temesse da me, tanto da fargli mutar parere nell’arco di una notte.

E finalmente trovai la risposta in una sua misteriosa vacanza in Transilvania, nel corso della quale sarebbe diventato fratello muratore, onore che prima di lui ebbero Mazzini e Garibaldi, ma evidentemente non Salvini. Se l’inciampo moscovita sarà fatale a quest’ultimo, vedrete che il suo posto sarà preso da Luca Zaia e così ogni tessera del putzle andrà al suo posto. Scommettiamo?