Marco Milioni su Alganews scrive un approfondimento che aggiorna con chiarezza e dettagli le implicazioni attuali riguardo alla vicenda della Pedemontana Veneta.(ndr)
Il governo capitanato dal premier Giuseppe Conte si è insediato ai primi di giugno. Da quando l’esecutivo è in carica molto si è detto sulle divergenze, più o meno potenziali, che animano le due componenti della compagine che ne regge le sorti: quella del M5S e quella del Carroccio. Molto si è detto soprattutto sui problemi dell’immigrazione, che stanno riempendo le colonne dei quotidiani. Meno, molto meno però, i media si stanno interessando di alcune discordanze che riguardano un tema per certi aspetti decisamente più pesante, quello delle infrastrutture, in cui gli interessi in gioco sono alle volte incalcolabili.
Su questo versante tra i fronti più bollenti ci sono quello della Tav Brescia-Verona-Vicenza-Padova e quello della Pedemontana Veneta, nota anche come Spv. Ma se nel primo caso l’opera non ha ancora affrontato i nastri di partenza, ben diversa è la situazione della superstrada che dovrebbe o dovrà connettere Montecchio Maggiore nel Vicentino con Spresiano nel Trevigiano. Si tratta di un’opera che da anni divide l’opinione pubblica veneta. E che per inciso costituisce una delle infrastrutture più importanti tra quelle oggi in cantiere in Italia: basti ricordare che i lavori ammonteranno a tre miliardi. Mentre il flusso di incassi che con i pedaggi, se il traffico ci sarà (o con i quattrini del bilancio se l’arteria sarà snobbata dagli utenti) la Regione Veneto dovrà garantire al concessionario privato, il raggruppamento italo-spagnolo Sis, per i quarant’anni successivi alla entrata in funzione ammonta a 12-15 miliardi di euro.
E che il progetto abbia avuto una gestazione pluriennale e controversa è dire poco: libri, scontri politici, dibattiti pubblici, contenziosi legali, bacchettate della Corte dei conti, proteste dei comitati, inchieste giornalistiche a non finire, ultima delle quali un impietoso approfondimento di Report del 16 aprile curato da Luca Chianca, sono stati registrati dai media a futura memoria.
Se però si fa scorrere il nastro un po’ più in avanti si potrà notare una cosa. Che da quando il M5S ha scelto per il dicastero delle infrastrutture Danilo Toninelli e per l’Ambiente Sergio Costa, noto quest’ultimo per le sue indagini sulle ecomafie campane al tempo in cui era ai vertici del Corpo forestale dello Stato, qualche cosa, è cominciato a scricchiolare. Se da una parte il vicepremier leghista Matteo Salvini ha messo più d’una volta le mani avanti, assicurando tutti che Tav veneta e Spv non si sarebbero toccate, sul versante opposto non sono mancate le prese di posizione dei Cinque stelle che parlavano, a seconda dei casi, di stop o di revisioni dei progetti. Il tutto mentre i vertici confindustriali veneti e nazionali si sperticavano lodando l’importanza strategica delle due opere.
AZZERATA LA COMMISSIONE VIA: VACILLA UN POTERE
Poi però il gioco ha cominciato a farsi più duro allorquando sul tamburo delle agenzie hanno cominciato a fare capolino lanci e notizie che vanno letti in filigrana. In primis c’è la decisione clamorosa del ministero guidato da Costa di azzerare l’intera commissione Via: una sorta di ircocervo istituzionale in cui controllori e controllati alle volte si confondono, così lo descrive l’Espresso, composto da privati cittadini esperti di lavori pubblici e uomini dello Stato. Nelle mani di questo organo risiede un potere immenso: quello di stabilire se un’opera pubblica di una certa rilevanza possa realizzarsi o no. E c’è un dettaglio di non poco conto da tenere in considerazione. La Via, con tutti i suoi componenti, era stata prorogata nel marzo 2018 poco prima che il precedente governo si dimettesse. Il che era stato visto in ambienti del M5S come il tentativo dell’establishment legato al precedente esecutivo di perpetuare la sua influenza anche presso gli attuali inquilini di Porta Pia e di palazzo Chigi. Il ministro Costa ha precisato che i nuovi componenti saranno selezionati attraverso regolari concorsi, il cui esito sarà una delle tante cartine di tornasole per comprendere se la volontà del M5S di cambiare l’andazzo ai Trasporti sia solo un amo lanciato in campagna elettorale o se costituisca la prima pagina d’un nuovo capitolo.
Ma il nesso più importante con la Pedemontana riguarda l’iter di quest’ultima. Per una serie di contingenze giuridiche tutte italiane la norma e la giurisprudenza permettono alla Montecchio-Spresiano, come ad altri progetti che hanno visto la luce grazie ad alcune leggi speciali come la legge obiettivo, di vedere i lavori iniziati e rimandare parte del nulla osta ambientale ad altro momento, ovvero mentre gli stessi lavori sono in corso. Ora che cosa succederebbe se il vaglio della Commissione di valutazione ambientale, o Via che si voglia, arrivasse dopo l’insediamento di un nuovo organo composto da membri ben più occhiuti rispetto a quelli che sedevano in precedenza sui medesimi scranni? Che cosa succederebbe se nei meandri dell’iter della Spv si appurasse che stralci importanti del progetto, fermo sì e non a un 30% (ma i comitati dimezzano questa stima), debbono ancora essere assoggettati al vaglio della nuova Via? E che cosa succederebbe se in seguito fossero bocciati?
INDAGINI SUL CONSIGLIO DI STATO
L’altra novità che in questa vicenda pesa come come un macigno giunge dalla cronaca giudiziaria. Non più tardi del 27 giugno Il Fatto quotidiano a pagina 10 ha dato una notizia mica da ridere. Si tratta di una indagine penale a carico dell’ex gran visir del Consiglio di Stato Pasquale De Lise sul quale grava una ipotesi di malversazioni in atti giudiziari proprio perché sarebbe stato istigato al fine di pilotare un pronunciamento da parte della magistratura amministrativa. Si tratta di ipotesi di reato che per inciso non hanno a che fare con la Spresiano-Montecchio. Premesso che De Lise per bocca del suo avvocato Fabrizio Lemme respinge con fierezza ogni accusa, c’è un dato storico che non può essere sottaciuto.
Il 5 settembre 2010 il nome di De Lise compare in un lungo servizio di cronaca giudiziaria del Corriere della Sera dedicato al cosiddetto affaire Argentario. In quel servizio firmato da Fiorenza Sarzanini compare un altro nome, quello dell’avvocato, allora quarantenne, Patrizio Leozappa, genero di De Lise. Il duo ricompare due anni dopo in una inchiesta de L’Espresso intitolata «Il giudice nababbo». Nel 2006-2007, si legge sul settimanale romano, il grand commis «ha dato il suo nome al nuovo codice degli appalti». Mentre sempre nello stesso servizio Gianfrancesco Turano aggiunge che De Lise «è uno uno dei pezzi da novanta nella lista di magistrati amministrativi e contabili italiani che abbinano gli emolumenti degli incarichi pubblici ai guadagni delle commissioni di concorso, dei collaudi e dei lodi arbitrali…».
Si tratterebbe di «una lobby poderosa in cui figurano nomi come Corrado Calabrò, Lamberto Cardia, Mario Egidio Schinaia, Antonio Catricalà, attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Mario Monti, e Carlo Malinconico, uscito dal governo dopo lo scandalo dell’hotel all’Argentario pagatogli da Angelo Balducci. Il ras della cricca ha messo in imbarazzo anche l’amico De Lise, consultore di Propaganda Fide e ritenuto vicino all’Opus Dei. Nelle intercettazioni il magistrato napoletano veniva sollecitato per sbloccare gli appalti del G8 insieme al genero, l’avvocato amministrativista Patrizio Leozappa».
LE LIASON VENETE
Di più, De Lise e Leozappa sono due nomi accomunati dalla conoscenza, ognuno dal suo versante del diritto amministrativo. E proprio questo expertise ha permesso a quest’ultimo di patrocinare la Pedemontana nell’ambito di importantissimi contenziosi avanti a quel Consiglio di Stato del quale De Lise è stato uno dei magistrati più noti. Basti pensare al cosiddetto contenzioso dei cinquanta ricorrenti, o a quello che oppose alla Sis la Impregilo, prima proponente della Spv, alla quale il progetto venne soffiato grazie ad una clamorosa vittoria proprio avanti il Consiglio di Stato.
E così sul massimo organo della magistratura amministrativa alcune nubi non si sono mai diradate. Si pensi alla discrepanza tra quanto rilevato dal Tar Lazio, che in primo grado descrisse la Spv coma una sorta di monstrum tecnico-giuridico«che ben si presta a distorsioni applicative di segno eversivo». E il sostanziale via libera del quale l’opera ha potuto beneficiare invece in svariati giudizi del Consiglio di Stato.
IL FILO ROSSO CHE ARRIVA AL MOSE
E ancora, i cronisti più esperti delle vicende giudiziarie venete ben ricordano tra le pieghe dell’affaire Mose, le dichiarazioni di due dei principali indagati ovvero Piergiorgio Baita e Claudia Minutillo. I due spiegarono, sempre nell’ambito delle indagini sull’affaire Mose, il sistema messo in piedi per corrompere i giudici del Tar e del Consiglio di Stato grazie alla intermediazione dell’avvocato Corrado Crialese. Sentito dai magistrati Baita parla proprio del contenzioso che vedeva opposta la sua Mantovani Costruzioni alla Sis-Sacyr per la Pedemontana Veneta.
Le sue parole nel giugno 2014 vengono riportate in un servizio di Repubblica che farà scalpore: «Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120mila euro. Per vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro… In quel caso qualcun altro deve dato di più».
Fino a che punto quelle frasi siano stato oggetto di una seria attenzione investigativa da parte delle toghe venete o eventualmente capitoline non si è mai saputo. Certo è che quando il 27 giugno Il Fatto ha pubblicato il suo approfondimento in tema di magistratura amministrativa, nel Veneto comitati e attivisti hanno fatto «un salto sulla sedia»; mentre sempre dalla galassia ecologista non mancava chi, alla luce dei più recenti eventi, si domandava se non fosse giunto il momento «di rileggere le vicende della Spv sia sul piano della corrispondenza dell’opera ai reali bisogni dei territori attraversati, sia sul piano della osservanza rispetto alle leggi».
L’ESPOSTO A ZAIA E DELRIO
In tal senso un esempio lampante di un frangente che potrebbe interessare la magistratura è l’esposto che il 24 gennaio 2017 viene inviato all’allora ministro dei trasporti Graziano Delrio (Pd) e al governatore veneto, il leghista Luca Zaia. Si tratta di 18 pagine dattiloscritte nelle quali il primo progettista della Spv, ovvero la società di engineering Sics, nella persona dell’amministratore unico Giuseppe Capocchi, squaderna le sue doglianze nei confronti della Sis, spiegando che la stessa Sics intende mettere a parte le autorità circa «la inesistenza dei requisiti di qualificazione tecnico-professionali in capo all’attuale direttore dei lavori» della Spv, inesistenza resa ancora più probabile se messa in relazione al fatto che «…lo stesso era stato, fino a pochi istanti prima, un semplice dipendente della medesima Sics, subentrato, in meno di 48 ore e senza alcuna procedura ad evidenza pubblica, al suo predecessore nel frattempo arrestato per essere stato coinvolto» in una maxi inchiesta giudiziaria, già nota come affaire Incalza-Perotti.
Queste sono le parole scelte per inquadrare la vicenda da Appaltileaks.it, un sito di wistle-blowing molto noto agli addetti del settore. Al momento non si sa che fine abbia fatto l’esposto firmato da Capocchi. Certo è però che quando un pubblico ufficiale (del Rio all’epoca in qualità di ministro lo era, come lo è Zaia del resto) viene a conoscenza di una possibile notizia di reato ha l’obbligo di segnalare la cosa all’autorità giudiziaria. In questo caso le procure interessate potrebbero essere quella veneziana e quella di Roma.
IL J’ACCUSE DI BERTI
Ora, sarà perché le polemiche sulla Spv non si sono mai sopite. O sarà che ai piani alti del M5S veneto sono in possesso di informazioni precise che arrivano dalle Infrastrutture, che politicamente fanno capo proprio ai Cinque stelle, ma comunque rimane un fatto da valutare. Jacopo Berti, capogruppo pentastellato che al consiglio regionale veneto siede tra i banchi della opposizione, solitamente mai sguaiato nelle critiche alla maggioranza leghista e al governatore Zaia, nel replicare alle accuse del Carroccio veneto, il quale considera chiusa la partita sulla Pedemontana, sulle colonne de la Nuova Venezia ha scelto scelto un linguaggio algido e al contempo corrosivo, per spiegare che sulla Montecchio-Spresiano il ministro Toninelli ha pronto un piano B. Per non parlare delle dichiarazioni rese da Berti alla Rai ancora il 3 giugno, in cui si fa riferimento a un progetto che «andrà a devastare le casse della Regione Veneto».
L’AVVISAGLIA TARGATA UDC E IL PD SCETTICO
Che qualcosa stia bollendo in pentola è poco ma sicuro, visto che come racconta Il Giornale di Vicenza, il senatore veneto dell’Udc Antonio De Poli in tema di Pedemontana avrebbe chiesto al ministro Toninelli di valutare la possibilità di revocare la concessione in atto e «di prendere in considerazione il progetto preliminare di Veneto Strade». Per un sostenitore dell’opera come De Poli, vicinissimo «al sentiment» degli industriali veneti, favorevolissimi al progetto, la novità, per certi versi clamorosa, suona come una sorta di avvisaglia. Come se in quell’iter tormentato ci sia qualche grosso nodo che prima o poi dovrà venire al pettine. Il tutto mentre il Pd veneto, col capogruppo in Regione Stefano Fracasso, sempre su Il giornale di Vicenza, si chiede se in realtà quella in corso tra Lega e M5S sulla Spv altro non sia che una finta schermaglia rispetto a un’opera che comunque procede.
L’ECOLOGIA E L’AGENDA POLITICA
Sullo sfondo però rimangono alcuni aspetti ineludibili. In Italia, il Veneto non fa eccezione, un pezzo di peso del voto ambientalista ha abbandonato i lidi della sinistra per trovar casa, magari temporaneamente, presso i Cinque stelle. Sulla vicenda dei migranti e dei porti quest’ultimo si è fatto rubare la scena dall’attivismo della Lega e del suo leader Salvini. Ed è proprio sul fronte ambientale che il M5S, almeno per quella parte che prova a riprendersi la scena mediatica, dovrà misurarsi con il giudizio della galassia ecologista: rispetto alla quale il banco di prova fornito dalla Pedemontana e dalla Tav veneta (per le quali non mancano le critiche all’operato dei pentastellati) è uno dei più importanti. Toninelli avrà la forza di imporre una modifica del progetto o addirittura di stopparlo? Da settimane i leghisti sostengono che non ci sono margini. Il Pd ritiene di sì ma a fronte del pagamento «di penali». La base del M5S ritiene che siano tante e tali le incongruità dello stesso, a partire dai rilievi della Corte dei conti, che i margini per scrivere un’altra storia ci siano tutti. Ora i Cinque stelle sono chiamati alla prova dei fatti.
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